Andar per risaie: una gita fotografica nel vercellese

Andar per risaie: una gita fotografica nel vercellese

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Il racconto di una piacevole domenica di maggio a zonzo tra risaie e borghi abbandonati, nella zona del vercellese in Piemonte.

La nostra socia e consigliera Laura Carletti si è fatta promotrice di una uscita fotografica molto interessante e con una varietà di generi fotografici davvero sorprendente.

Infatti nella zona del vercellese ci si può concentrare su fotografia:

Paesaggistica: suggestivi gli specchi d’acqua su cui si riflettono nuvole, cascinali, uccelli e tramonti.

Naturalistica: è possibile incontrare limicoli vari: airone cenerino, airone rosso, airone bianco, ibis sacro, garzette, alzavola, cavalieri d’Italia, germani, nitticora, pavoncelle; martin pescatore, nutrie e leprotti.

Urbex: tra le tappe si contano diversi luoghi abbandonati.

A volte basta spostarsi di pochi chilometri da Torino per scoprire luoghi davvero suggestivi.

Vi lasciamo alla descrizione dell’itinerario e ad una descrizione delle tappe, nel caso voleste ripetere autonomamente la gita.


L’itinerario e le tappe

Abbiamo percorso un tratto di autostrada fino all’uscita Chivasso Est. Da li abbiamo seguito la statale fino a Crescentino ma prima di entrare nella cittadina, si svolta a sinistra in una rotonda direzione Vercelli. Usciti da Crescentino si iniziano ad intravedere le risaie.

Da qui in avanti si procede lentamente, macchina fotografica pronta perché è possibile imbattersi in situazioni interessanti.

Il consiglio se si avvistano limicoli vari, leprotti ecc.., e pensiamo di fotografarli, lo possiamo fare dall’auto cercando di avvicinarci il più possibile, ma senza scendere perché li faremmo scappare subito.

In fotografia naturalistica si usano dei nascondigli o dei capanni mimetizzati, ma la risaia è un ambiente che non offre nascondigli naturali, quindi le nostre auto saranno il nostri “capanni”.

Se volete ripetere l’itinerario di seguito trovate una breve descrizione dei diversi luoghi nei quali ci siamo fermati.

 

  • Riserva naturale della palude di san Genuario.

La strada è un buon punto di osservazione sul vicino canneto e palude frequentato dal tarabuso e dall’airone rosso, due rarissimi aironi tipici dei canneti più tranquilli, e dagli ibis sacro. Il tratto è pieno anche di leprotti!
Si può procedere verso il vecchio Mulino Carotole (pericolante e non accessibile) e il laghetto Verteillac, si può seguire il canale di risorgiva detto Cavo delle Apertole, che si apprezza per le acque trasparenti e le buone condizioni di naturalità, evidenziate dalla rigogliosa vegetazione acquatica. Ricca è anche la fauna: nel canale è facile osservare pesci come il triotto e l’alborella e libellule. La strada sterrata costeggia canale e risaie sino ad incontrare nuovamente la strada asfalta vicino a Frassineto.

 

  • Chiesa Madonna delle Vigne:

Immersa nel mistero e nelle leggende del Principato di Lucedio, la chiesa è stata sconsacrata da Papa Pio VI nel 1784. Ci si può chiedere quale si stata la motivazione che ha spinto il papa a fare questo gesto.

Torniamo alle origini. La chiesa fu costruita alla fine del XVII secolo e dopo la sua sconsacrazione fu lasciata in uno stato di completo abbandono. La sua forma architettonica è piuttosto particolare, presenta una pianta ottagonale con un unico vano e un porticato all’esterno, anch’esso piuttosto singolare, e il suo ingresso non è rivolto a Est ma a Sud. Faceva parte di tutto il complesso che comprendeva anche l’Abbazia di Santa Maria di Lucedio e il cimitero.

Intorno a tutte queste strutture vi sono una miriade di leggende e storie macabre: si racconta che all’interno della chiesa si svolgessero sabba, riti oscuri e orge e che, in tutto il complesso, si aggirasse un’entità demoniaca che spingesse abati e monache a compiere malvagità.

La leggenda narra che questa presenza sia stata domata e rinchiusa nelle cripte del monastero e che fu fatto un rituale per fare ciò. Se si entra nella Chiesa della Madonna delle Vigne e si alta la testa guardando sopra il portone di ingresso, è possibile vedere dipinto un organo con un insolito spartito al centro. Si racconta che questo sia lo Spartito del Diavolo, composto per avere un’ulteriore garanzia dell’incarcerazione dello spirito malvagio.

Se si fa caso alle prime note nello spartito si vede come queste siano usate generalmente per chiudere i brani e la melodia che uscirebbe suonandolo sarebbe estremamente grave. Se invece lo si suonasse al contrario, ossia dalla fine verso l’inizio e da sotto a sopra, si avrebbe un suono estremamente melodioso e armonico, che provocherebbe la liberazione del diavolo.

Pur non coonscendo la leggenda, quando si entra nella Chiesa l’affresco cattura immediatamente l’attenzione e costringe quasi a fotografarlo. Il tutto alimenta ulteriormente l’atmosfera di mistero e inquietudine che si percepisce in tutta la zona.

 

  • Principato di Lucedio:

L’Abbazia di Lucedio ora è una azienda agricola che si visita su appuntamento. Fu fondata nel 1123 dai monaci Cistercensi che bonificarono il territorio introducendo all’inizio del ’400 – primi in Italia – la coltivazione del riso.

Col passare del tempo, grazie alla strategica posizione geografica lungo la Via Francigena, l’Abbazia divenne un fiorente centro di potere economico e politico: ben tre furono i Pontefici che la visitarono.

  • Il cimitero Darola di Lucedio

Nei pressi del celebre principato di Lucedio c’è un antico cimitero conosciuto per le sue leggende e per il suo aspetto tanto spettrale, il cimitero della Darola. Nonostante l’oasi di pace in cui è inserito, è sempre stato oggetto di storie maledette ed eventi nefasti e per questo non ha mai goduto di una buona fama, anzi, è sempre stato additato come luogo maledetto Nella zona, tra il XVII e il XVIII secolo, iniziarono ad essere molto praticati riti satanici e magia nera; furono scelti il cimitero della Darola e il vicino Santuario della Madonna delle Vigne come luoghi prediletti per i suddetti riti. Alcuni racconti narrano di ragazze e suore che, alla fine del 1600, partecipassero a sabba sia nel Santuario sia nel cimitero e che a tali riti si unissero monaci di conventi vicini e in particolar modo persone provenienti dal vicino Principato di Lucedio.

Il cimitero oggi si presenta così degradato e coperto dalla vegetazione da essere difficile da individuare nonostante la vicinanza con la strada; non esiste una cura del luogo da un centinaio di anni e le ultime anime visitate risalgono, probabilmente, agli anni ’60. Un momento particolare va speso anche per le due gemelline defunte nel 1868, a quindici anni, per un non ben precisato motivo, cui è stata dedicata un’effigie visibile nelle immagini.

 

  • Leri Cavour

Qui c’è molto da scoprire. È una grangia molto importante appartenuta alla famiglia di Camillo Benso Conte di Cavour.

La zona era inizialmente paludosa e poco adatta allo stanziamento dell’uomo, ma i monaci cistercensi, nell’XI secolo, la bonificarono rendendola vivibile; già meno di un secolo dopo la zona era ampiamente sfruttata per la coltivazione e l’allevamento ed esisteva un imponente struttura adibita ad azienda agricola.

Nel XV secolo il luogo era l’azienda più importante del vercellese ed un importante luogo di culto per i monaci stessi; divenne parrocchia nel corso del XVI secolo e mantenne indipendenza e influenza sino alla dominazione francese, quando poi divenne una proprietà di Napoleone Bonaparte.

La grangia fu venduta nel 1807 a Camillo Borghese che poi, nel 1822, la vendette al Marchese Michele Benso di Cavour, padre di Camillo.

L’azienda, una volta rilevata dalla famiglia Cavour, fu portata al massimo splendore attraverso l’attuazione di politiche economiche oculate e l’adeguamento delle tecniche di coltura con tecnologie all’avanguardia.

Grazie alla gestione dei fratelli Camillo e Gustavo l’azienda migliorò sempre di più e lo stesso Camillo, anche nei periodi assai fitti d’impegni politici, soleva ritirarsi appena possibile in questa che lui definiva oasi di pace.

La struttura era così ben avviata da ospitare anche le abitazioni dei lavoranti, cosa che conferì a Leri lo status di vero e proprio paese.

Gli edifici che s’incontrano passeggiando fra le sue rovine sono quelli tipici di un enorme impianto agricolo, come scuderie, fienili e granai; ovviamente vi sono le abitazioni dei lavoranti, la chiesa (1718-1720) e un vecchio mulino. Certamente il luogo di maggiore interesse è quello dove dimorava la famiglia Cavour, una splendida villa su due piani con i soffitti interamente affrescati e camini finemente lavorati in ogni camera

L’abbandono del luogo non è cosa facile da definire, perché senza dubbio durante gli anni ’60 c’è stata una prima fase di spopolamento del borgo a causa dell’avvento dell’industria e del processo industriale legato all’agricoltura.

Negli anni ’80 il borgo restava vivo grazie agli impiegati della vicina centrale termoelettrica che avevano deciso di vivere lì essendo molto vicini al luogo di lavoro.

Negli anni ’90 qualcosa ancora sopravviveva a Leri, ma era solo qualche sussulto, perché negli anni ’90 non rimarrà più nulla di vivo fra quelle stradine.

Dato l’abbandono effettivo recente, non è il tipico luogo abbandonato con la vegetazione che ha già assalito le mura e gli edifici, ancora è tutto abbastanza in ordine, come se qualcuno ancora vi dimorasse.

Chi si avventura oggi a Leri Cavour, può imbattersi nei soliti curiosi appassionati di abbandono o potrebbe trovarsi in uno scenario di guerra, dove squadre di soldati si sfidano fra le mura abbandonate del borgo.

 

  • Il cimitero di Castel Apertole

Ecco il cimitero tondo molto suggestivo in tutte le stagioni! Castell’Apertole è un’antica Grangia sorta intorno al VI secolo e di questa rimangono un antico castello e altre strutture che, oggi, fanno parte di un complesso avente un agriturismo e un B&b.

Il cimitero perde le sue origini in un tempo sconosciuto, mentre le sue lapidi sono oramai consumate dal tempo.

Non si sa esattamente quando sia stato abbandonato, sconsacrato e privato dei suoi ospiti, ma qualcosa è rimasto e non è chiaro cosa si nasconda sotto l’alta erba e le pietre funerarie.

Il muro di mattoni, nel lato opposto all’ingresso, conserva una cappelletta minuscola, dove sono riposte le lapidi rotte e altri pezzi di quelli che erano i monumenti funerari di chi fu sepolto lì.

 

  • Chiesa della Colombara

A pochi metri dal cimitero della Colombara, proprio di fronte alla tenuta omonima, vi è una bella chiesetta abbandonata che faceva parte dell’intero complesso della grangia della Colombara.

La chiesa era usata sino alla fine degli anni ’90, anche se abbastanza di rado; era il riferimento del culto per le centinaia di persone che vivevano e lavoravamo proprio nella tenuta, dove la coltura del riso era l’attività principale.

 

  • Il cimitero della Colombara

Ultima tappa a poche centinaia di metri da Castell’Apertole, vi è un’altra minuscola frazione denominata Colombara, piccola e dedita da secoli alla coltura del riso, aveva anch’essa un piccolo cimitero oramai dismesso.

Il cimitero della Colombara giace in stato di abbandono totale, fra erbacce, lapidi divelte e tombe scoperchiate. Gli abitanti attuali sono le rane che, se vi fosse più acqua, forse avrebbero adibito questo luogo, una volta sacro, a propria dimora permanente.

Facendo attenzione a non calpestare anfibi metamorfi e adulti nascosti nell’erba, si può entrare in questo cimitero che regala immediatamente una sensazione di pace e allo stesso tempo di inquietudine.

Notizie frammentarie parlano di un abbandono avvenuto intorno alla metà del secolo scorso, ma le tombe sono state distrutte a causa dei vandali e non è possibile comprenderne, il più delle volte, le date.

Fra rane ed erbacce spunta una lapide, l’unica con una foto di una donna anziana di cui non si è in grado di sapere alcunché.


Il tempo non è stato proprio ottimale, ma la gita e la compagnia si sono rivelate spettacolari!

 

Sugli esiti fotografici delle nostre fatiche valutate voi!

Presentiamo, in ordine sparso, fotografie di Adrian Balint, Marco Casetta, Paola De Palma, Maurzio Siena, Susanna Sotgiu, Andrea Aimar, Silvia Manzone, Giusy Pascullo, GianMario Ledda, Luca Campanella. E ringraziamo ancora Laura per l’ottima proposta!